Florence + The Machine: oltre la favola

Florence Welch ha trovato la sua strada, eppure si trova a un bivio. In occasione dell’uscita del suo quinto album, Dance Fever, si racconta a Rolling Stone UK a proposito di relazioni e su come gestire ansia e successo

È difficile non pensare alla natura ingannevole della mitologia quando si parla di Florence Welch.

C’è Florence + The Machine, l’eterea icona pop internazionale, lo spettacolare ed empatico pseudonimo musicale che ha segnato la vita di Welch fin dall’adolescenza, con canzoni epiche e spirituali traboccanti di intensità, euforia, immaginazione, riflessioni cosmiche o profonda tristezza.

E poi c’è la 35enne seduta a metà mattina in un pub in una verdeggiante Camberwell, sud di Londra, vicino a dove vive, intenta a sorseggiare il suo espresso e parlare spiritosamente di cose ordinarie, come fare le pulizie o guardare troppa tv. Questa Florence è una tipa ansiosa che pensa troppo, con una leggera agorafobia e che si impone di uscire a prendere un caffè al mattino in un bar vicino, solo con pigiama e felpa.

Effettivamente questa Florence sprigiona ancora parecchia stravaganza. La prima volta che ci incontriamo siamo sul set fotografico, si aggira tra le stanze cantando tra sé e sé canzoni dell’epoca di Be the Cowboy di Mitski, con quella lunga cascata di capelli ramati sulle spalle. Le sue risate riecheggiano nella stanza.

Oggi indossa un leggero abito verde bosco con fasce di pizzo bianco. Le sue braccia e le sue mani sono come un album di tatuaggi, le dita sono ricoperte di intricati anelli vintage dorati e sulle unghie ha smalto rosa rovinato. Parla di poesie, dei saggi di Zadie Smith e di tarocchi e a volte per spiegare qualcosa inizia a cantare o urla drammaticamente. Per quanto la sua natura sia sognante, ha una serena consapevolezza che la fa sembrare ancora di questo pianeta.

“Sono un mix tra una persona razionale e pratica e una che se ne scapperebbe con le fate” ride. “Ma in un certo senso penso che tu mi creda molto più irrazionale di quanto sia in realtà”.

“Sono un mix tra una persona razionale e pratica e una che se ne scapperebbe con le fate” ride. “Ma in un certo senso penso che tu mi creda molto più irrazionale di quanto sia in realtà”.

Il quinto album di Florence + the Machine, Dance Fever, sta per arrivare. È il primo dopo High as Hope (2018), che, insieme al precedente How Big, How Blue, How Beautiful (2015), l’ha vista muoversi in un terreno lirico più letterale, esplorando temi personali in modo più evidente. Il suo lavoro precedente era intessuto di brillanti racconti, su temi disparati (da occhiali da vista al mare), ma in High as Hope, arrivato dopo la sua disintossicazione, ha raccontato in modo più crudo realtà difficili come i suoi disturbi alimentari (in Hunger canta: “At seventeen, I started to starve myself / I thought that love was a kind of emptiness”).

Quando ha annunciato Dance Fever su Instagram lo scorso marzo ha scritto nella didascalia “Una favola in 14 canzoni.” Con un artwork regale e pezzi maestosi e scintillanti accompagnati da una voce sempre formidabile che narra di re e di mostri, l’album ci riporta ai primi anni della carriera di Florence. Ma stavolta è una raccolta che parla alle diverse forme d’ansia, dalle esperienze collettive come l’invecchiamento, l’essere donna, la fragilità del pianeta, la pandemia, a riflessioni più intime sulla sua carriera, le relazioni, la solitudine; sulla vita, semplicemente. E a differenza della maggior parte delle favole, non è proprio chiaro se ci sia un lieto fine.

“Do un senso al mondo trasformandolo in leggende e favole” racconta mentre la luce primaverile si riversa dalla finestra accanto a noi, incorniciandola come in un ritratto. “Trasformare persone e cose in personaggi… penso sia così che elaboro tutto”.

È consapevole che questa è una cosa che fanno anche a lei: i fan, i media, persino i nuovi partner. “Credo che un sacco di persone pensino ‘Florence + the Machine! Se ne va in giro in robe di seta.’ No, io sono un nugolo d’ansia, con la tv accesa, a cercare costantemente di scacciare i pensieri negativi” inizia a ridere, non del tutto amaramente. “Sarà divertente ed entusiasmante, prometto – c’è il palco e poi c’è questa persona agorafobica che ha bisogno di starsene a casa, specialmente da quando ho smesso di bere. Sono una pantofolaia. Quindi le persone pensano che sarà divertente ed eccitante – ‘Oh, il pubblico avrà sicuramente il meglio di te!’ No. Avrete le lacrime.”

In Dance Fever rivolge al suo interno questo modo di pensare. Attraverso uno storytelling mistico ed epico nato dall’immenso regno della sua immaginazione, l’album cerca di affrontare la dicotomia tra i desideri e i bisogni di Florence Welch, l’umana, contro Florence Welch, la creatrice, il mito.

“Ero in massima allerta tutto il tempo, non c’era niente da cui trarre ispirazione. Appena schiacciavo una nota sul piano, scoppiavo in lacrime. Non avevo parole, solo dolore.

Una misteriosa “malattia del ballo” scoppiata in Europa tra Medioevo e Rinascimento, con gruppi di persone – talvolta migliaia – che si riunivano e iniziavano a ballare in modo maniacale, senza nessuna ragione apparente. Alcuni studiosi pensavano si trattasse di un’isteria di massa portata da persone che cercavano sollievo durante periodi di stress, trauma e povertà. Dance Fever prende il nome da questo fenomeno, conosciuto anche come “coreomania” (che è anche il titolo di un pezzo frenetico e fulmineo nel disco).

In un certo senso è un concetto che attraversa tutta la scala dell’opera di Florence: la danza come rituale incontrollabile e terapeutico per scacciare la tristezza. “La sintesi del disco è forse il verso ‘And when I’m dancing, I’m free‘ “, non mi dà pace ma poi ballo e mi dico ‘Oddio, è andata via!’ E voglio trasmettere anche agli altri questa sensazione”.

C’è un significato nella pista da ballo come spazio terapeutico. Nel febbraio 2020 Florence era a New York a registrare col famoso produttore, scrittore e artista Jack Antonoff (voleva lavorare con lui per via del suo amore per Melodrama e Norman Fucking Rockwell!). Le prime sessioni stavano andando bene, finché sua madre la chiamò e le disse di tornare a casa per un po’ – Florence acconsentì perché, come il resto del mondo, pensava che la pandemia sarebbe durata un mese o poco più. Lei e Antonoff erano d’accordo che sarebbe stato come prendersi un giorno libero dal lavoro.

Naturalmente la realtà era molto diversa. Essere costretta a fermarsi per così tanto tempo non era nei suoi piani dopo oltre un decennio di costante movimento. “Ho bisogno del movimento per andar via da me stessa” confessa. “Se mi siedo con la tristezza, non va più via.” Il lockdown non era l’ideale per lei, evidentemente.

Per Florence scrivere canzoni ha sempre significato condividere l’esperienza individuale. “Ma a quel punto era un’esperienza così collettiva… come puoi renderla individuale? Cosa dovrei dire?” Il suo processo creativo è stato attingere dal suo subconscio, ma a quel punto non c’era più: “Ero in massima allerta tutto il tempo, non c’era niente da cui trarre ispirazione. Appena schiacciavo una nota sul piano, scoppiavo in lacrime. Non avevo parole, solo dolore.”

Sei mesi dopo è riuscita a scrivere Heaven Is Here, un potente incantesimo che lei descrive come “una purificazione” dopo il lungo periodo in cui non era riuscita a tirar fuori nulla. Florence voleva una pausa dal tour ma trovarsi davanti alla reale possibilità che la musica live non sarebbe più tornata l’ha sopraffatta: “So essere molto drammatica ma immaginare un mondo senza musica live? Non so se potrei viverci”.

A volte Florence sa essere abbastanza fatalista – come in Cassandra, dice che una parte di lei sentiva che la pandemia era una punizione per la preveggenza del suo lavoro e per aver voluto prendersi una pausa. (Poi ride del suo ego congenito: “Perché sta succedendo proprio a me? No, sta succedendo a tutti.”)

“Do un senso al mondo trasformandolo in leggende e favole. Trasformare persone e cose in personaggi… penso sia così che elaboro tutto”.

Florence Welch

Quando ha incontrato Dave Bayley dei Glass Animals dopo aver scritto Heaven Is Here, era con l’intento di fare musica dance – canzoni nate proprio per l’esperienza live. Finalmente il disco che temeva di aver perso iniziò ad acquistare di nuovo un senso – ma c’era questo nucleo di dolore e di fragilità che era alla base di temi pre-esistenti nel suo lavoro, come l’introspezione e il rapporto con la creatività.

Il risultato è che Dance Fever è pieno di canzoni che offrono una liberazione catartica: alcuni sono pezzi tutti da ballare, altri hanno un calore più moderato, da gospel. È un album che vede Florence riflettere sulle sue azioni nella fiaba infernale che è la sua vita: se forse sarebbe il caso di curare la sua salute mentale, il catastrofismo, interrogarsi sulla felicità, sulle relazioni, sulla morte. Le sue canzoni sono “come bambini che pregano di nascere”.

È un album che si chiede quanto ancora ci vuole perché le persone voltino le spalle alla loro beniamina: potranno amarla davvero anche con i suoi difetti umani?

Il successo è arrivato in fretta per la giovane, caotica Florence. Anche se aveva avuto diverse esperienze musicali negli anni 2000, è stato il lavoro con l’amica e pianista Isabella Summers ad attirare l’attenzione. La coppia iniziò a fare musica insieme nel 2006, in origine come Florence Robot and Isa Machine, tra concerti e demo, generando hype tra gli utenti dei primi blog musicali e MySpace. Nel 2008 Florence + The Machine firmarono con Island Records e nel 2009 vinsero quello che all’epoca era il premio più importante dell’industria musicale, il Brits Critics’ Choice Award.

Florence ha sofferto d’ansia fin da piccola ma le sue insicurezze e paure peggiorarono alla fine degli anni 2000 quando la sua faccia improvvisamente era ovunque e veniva giudicata per il suo aspetto. Iniziò a misurare il suo valore con una bilancia, ricoprendosi di trucco e bei vestiti, con la speranza di adattarsi a questo nuovo affascinante mondo di red carpet. Quel periodo incombe ancora sulle sue scelte creative. “Quando ho iniziato a pubblicare musica, la mia vita è stata completamente stravolta” dice. “E ancora adesso, ogni volta che esce qualcosa ho ancora in testa questa domanda: ‘la mia vita sarà stravolta?’ “

Florence parla della fama come di un’entità quasi distinta e incontrollabile: “A volte il successo sembra una perdita, come se un pezzo della tua umanità si sia perso per strada. Tutto ciò che desideravo era fare la cantante ma ignoravo il prezzo da pagare. Come si preserva la propria umanità?”

“A volte il successo sembra una perdita, come se un pezzo della tua umanità si sia perso per strada. Tutto ciò che desideravo era fare la cantante ma ignoravo il prezzo da pagare. Come si preserva la propria umanità?”

Camberwell è un luogo che in qualche modo l’ha sempre tenuta coi piedi per terra. Siamo dietro l’ospedale dove Florence è nata; vicini alla casa dove è cresciuta; in fondo alla strada della sua attuale casa; non lontani da dove vive sua sorella. “Penso ci sia qualcosa di importante nella routine quando la tua vita cambia così tanto” mi dice. “Sono un’abitudinaria”.

La figlia di Nick ed Evelyn Welch (il primo un direttore pubblicitario e la seconda una professoressa di studi rinascimentali), Florence è la prima di tre figli. I suoi genitori sono stati abbastanza permissivi e il suo rapporto con loro e in generale la sua formazione è qualcosa su cui si interroga sarcasticamente. “Il mio terapeuta cerca sempre di farmi parlare della mia infanzia e io…” inizia a ridere e urla “Non è così semplice! Sono complicata! Sono diversa! Non si tratta di mia madre! Sono l’unica persona che non ha un problema con sua madre!”

Da adolescente Florence si innamorava degli skater punk, cercava di imitarli e diventò anche lei una di loro. “Era quel periodo in cui la musica non era solo musica, era ciò che indossavi, cosa ti piaceva, le tue amicizie” inizia a ridacchiare. “Ti mettevi i jeans larghi ma poi scoprivi che agli skater non piacevano le ragazze come loro ma quelle che si vestivano sexy. Pensavo che lui sarebbe caduto ai miei piedi vedendo quanto fosse lunga la catena del mio portafogli!” Per un breve periodo mise su una band chiamata Toxic Cockroaches, anche se confessa che non andarono oltre la scelta del nome. “Era una musica con una sua totale identità, con una scena” dice, ammettendo che era strano che andasse ai concerti dei NOFX a 13 anni.

Ripete sempre che da ragazzina non si sentiva bella. Prendo un verso dal suo libro di poesie del 2018, Useless Magic: “Potrei innamorarmi di un sacchetto di plastica se mi desse attenzioni” (“I could fall in love with a plastic bag if it paid me some attention”). Inizia a ridacchiare, “Lo so!” Poi sospira: “È buffo, puoi avere tutti ad applaudirti ma un estraneo che ti fa i complimenti… c’è questo substrato di abbandono in me per cui se qualcuno mi fa sentire ammirata o mi dà amore, io gli dico ‘Ti ho appena incontrato ma sono pazzamente innamorata di te!‘ ”

Di certo però, dato il suo lavoro, difficilmente manca di attenzioni e complimenti? “Le persone lo credono ma nella quotidianità vogliono tenermi coi piedi per terra” dice. “Quindi gli amici più stretti e i parenti mi dicono ‘Vorremmo dirti che sei proprio una frustrata!’ ” E continua: “Penso che una buona parte di me sia molto sensibile al fascino perché c’è sempre quella bambina che pensava di non piacere a nessuno. A scuola non ho mai avuto un ragazzo. E volevo disperatamente essere notata e amata.”

Forse la sua adolescenza ha mancato di storie d’amore ma è stata di certo più pittoresca del comune. A 15 anni Florence andava alle feste studentesche del Camberwell College of Arts e incontrava persone che le avrebbero dato quella che lei descrive come “educazione musicale” (ovvero introdurla ai Joy Division). Nel 2005 fece irruzione da ubriaca nel camerino della famigerata band DYI dance punk Test Icicles, il suo primo incontro con un altro artista in erba, Dev Hynes. In realtà diventarono amici solo in seguito, scrivevano insieme e occasionalmene suonavano nei rispettivi gruppi.

“La vera intimità, impegnarsi? Per me è una vera lotta. Puoi passare tutta la vita a desiderarlo e poi quando qualcuno ti dà amore, quello vero e sano, ti dici ‘Perché lo stai facendo? È disgustoso!’ “

“Dev mi ha portata nel mio primo tour come corista con i Lightspeed Champion, e io non facevo altro che saltellare e cantare a squarciagola” ricorda con una grossa risata. Nel 2007 i due registrarono una cover dell’intero album dei Green Day Nimrod nella cucina di Hynes, sotto lo pseudonimo di ‘Team Perfect’ — e sì, ci sono ancora i video su YouTube.

Suggerisco che tutto questo sia in qualche modo in conflitto con la percezione che le persone hanno di Florence adesso, quella di un’autrice di art pop graziosa e femminile. Inizia a intonare Break Stuff di Limp Bizkit – “Everything is fucked / everybody sucks!” — e ride. “Se ascolti il primo pop punk sono accordi semplici, energia, ritmo, accanimento e penso che mi abbia influenzata. È semplice ma ti dà anche una sensazione… Anche dopo aver trovato la mia estetica più romantica, penso di aver imparato molto dal “controllo della folla” di quei concerti punk a Camberwell e quanto devi essere aggressivo per farlo.”

Florence è sempre stata famosa per il suo ferale trasporto durante i concerti – corre tra la folla senza mai fermarsi e si arrampica sulle strutture del palco. “Penso che lì sia dove riesco a esorcizzare molte frustrazioni e sensazioni e sentirmi grande e spaventosa” dice. “Il mio stile performativo probabilmente è molto più maschile che femminile e oscilla tra i due. Quindi quando le persone mi chiedono cose del tipo ‘Come ci si sente ad essere una grande artista donna?’ Io penso ‘Non lo so in realtà… per me è sempre stato molto più fluido di così”.

Nel 2017 Claire Dederer scrisse un articolo per The Paris Review: ‘Cosa ce ne facciamo dell’arte degli uomini mostruosi?’ Nel pieno del movimento #MeToo ad Hollywood, Dederer criticò il lavoro di rinomati molestatori ma si fece anche una domanda, ipotizzando che per essere un’artista di successo: “Quando si parla degli ingredienti necessari, c’è bisogno di egoismo. Un libro è fatto di tanti piccoli egoismi. L’egoismo nel chiudere la porta alla tua famiglia, nell’ignorare un passeggino in una hall […] Devo chiedermi: forse non sono abbastanza mostruosa.”

Dico a Florence che questo è un tema alla base di Dance Fever — la creatività come mostro egoista che è molto difficile da far corrispondere ai tempi e alle aspettative riposte nella donna. Nella lacerante King – il primo singolo dell’album – canta risoluta nel ritornello: “I am no mother, I am no bride, I am king.

È d’accordo con la dichiarazione: “La più grande relazione della mia vita è sempre stata con la canzone stessa. Molto di questo disco sta nell’analisi di questo rapporto con l’entità creativa e nel chiederle ‘Sei davvero una forza positiva? O in realtà sei diabolica?’ ” Florence pensava che le sue canzoni fossero ‘angeli’ ma si è fatta delle domande quando – dopo aver pensato di fermarsi finalmente per un po’ dopo il quarto disco – ha sentito il richiamo delle canzoni. “No, tu vieni con noi!” grida. “Crescendo, quello a cui rinunci per le canzoni diventa sempre più grande. È più come una forza che ti tira via da qualcosa… ma ti piace davvero? E così sembra molto più faustiano di quanto sia mai stato prima”.

Molto di questo disco sta nell’analisi di questo rapporto con l’entità creativa e nel chiederle ‘Sei davvero una forza positiva? O in realtà sei diabolica?’

La decisione di scrivere un altro album e fare un altro tour le è sembrato come ammettere a sé stessa che ancora una volta non avrebbe messo su famiglia a breve. “È stato molto difficile – come a dire ‘Sono insensibile? Che razza di creatura sono?’ C’è stato un momento in cui avrei potuto scegliere di non farlo eppure l’ho fatto. Forse è il modo in cui siamo tutti programmati ma mi chiedo: ‘Quando arriverà il bisogno improvviso di portare una nuova vita nel mondo, mi inseguirà sempre finché non sentirò il bisogno di farlo?’ A un certo punto vorrò davvero una famiglia ma la mia creatività è davvero molto forte”.

Parliamo di arrivare ai 30 anni e della sconcertante consapevolezza del fatto che se i tuoi coetanei hanno figli non è più una cosa così aliena o indesiderata (e parla di un meme di Reductress su una “ragazza madre” 29enne). “Il modo in cui lo sento adesso, che forse serpeggia nell’album, è un superamento lento e subdolo. Sembra un piccolo fantasma – mi sento tormentata dall’idea di un figlio più che sentirmi pronta” fa una pausa. “Ma c’è questa paura per cui forse non sono pronta adesso, ma se poi arriva il momento in cui sono sicura ma è troppo tardi? Il tempo non è dalla tua parte e quel tipo di rabbia è nell’urlo alla fine di King – non sto dicendo che non voglio queste cose; voglio solo più tempo! Ma… il tempo non è così. Non puoi scappare.”

Nel 2018, nell’ultima traccia di High as Hope, No Choir, Florence dice che la felicità è fatta per le cose ordinarie (“And it’s hard to write about being happy, ’cos the older I get, I find that happiness is an extremely uneventful subject / And there would be no grand choirs to sing / No chorus could come in / About two people sitting doing nothing”).

Quattro anni dopo mi chiedo se definisca diversamente la felicità: se possa accettare l’amore e la serenità senza dubitarne, senza supporre che avranno un impatto negativo sulla sua capacità di creare arte. Ci mette un momento a rispondere, attorcigliando i lunghi capelli rossi in uno chignon. “Penso che in parte sia l’essere guarita da lungo tempo dai disturbi alimentari” esordisce. “Molto sta nel rifiuto del nutrimento – ‘Non merito di mangiare, non merito di sentirmi a mio agio.’ La forma mentis dell’anoressia è ancora parte della mia vita anche se l’anoressia in sé non lo è più. E allora quando mi trovo davanti a quell’intimità che a volte è come essere nutrita, mi dico ‘No, è troppo, non ne ho bisogno”.

Una delle demo non incluse nell’album ha questo verso: “Learning how to let yourself be happy is the hardest part / Learning how to let yourself be loved? / Jesus, where to start?”. In parte Florence pensa di aver compromesso il suo cervello regalando questa intimità ai suoi ascoltatori piuttosto. “Essere in intimità su una scala così ampia è più sicuro” dice “ma la vera intimità? Impegnarsi? Per me è una vera lotta. Puoi passare tutta la vita a desiderarlo e poi quando qualcuno ti dà amore, quello vero e sano, ti dici ‘Perché lo fai? È disgustoso!”

Naturalmente è ancora più complicato quando il lavoro della tua vita è stato costruire questo grande monumento al desiderio. Florence Welch sorride ed è profondamente consapevole di sé. “Sto cercando di superare questo mio personaggio tragico che non sa amare” dice ironicamente. “Mi dico ‘No, è parte della mia mitologia, forse ho bisogno di quel dolore per le mie canzoni! Le mie canzoni sono la cosa che c’è sempre stata per me!’ Ma quanto sono devota alla mia stessa solitudine?”

C’è un verso in Dance Fever in cui Florence canta “I thought that I was here with you, but it was always just an empty room.” Il “tu” in questione è quella entità creativa che ha plasmato la vita di Welch; gli angeli e i demoni l’hanno trascinata a scrivere un’altra canzone. “Sai, penso di essere finalmente sola con la mia creatività nello spazio che mi sono creata esattamente nel modo in cui voglio vedere il mondo” sospira. “Ma in realtà me ne sto solo seduta da sola in una casa”.

Intervista originale di Tara Joshi pubblicata su Rolling Stone UK il 9 maggio 2022.

Styling: Aldene Johnson
Hair: Leigh Keates
Makeup: Sarah Reygate
Styling Assistant: Kamelia McKayed
Fashion Director: Joseph Kocharian
Fashion Assistant: Sacha Dance

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